Una legge contro i distruttori di Bellezza
MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 31 ottobre 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Cercando un documento per una ricerca storica fra le carte di un archivio
francese, mi sono imbattuta in un foglio senza intestazione che mi è sembrato
la minuta di una lettera, verosimilmente scritta da un cittadino d’oltralpe che
non disdegnava l’uso di parole tedesche in voga alla fine del Settecento, dopo
la Rivoluzione, negli anni del diario di Goethe sul suo Viaggio in Italia.
Il foglio era strappato in basso e l’ultima frase leggibile implicava una
prosecuzione su un foglio seguente andato perduto; se di una lettera si
trattava, doveva essere rivolta ad un’autorità legiferante, perché chiedeva di
istituire un nuovo profilo di reato: la distruzione della bellezza.
Non è dato sapere se la petizione avesse per oggetto l’abbattimento di
monumenti e il danneggiamento di opere d’arte, oppure fosse riferita alla
bellezza in senso astratto, che costituiva un importante argomento nell’istruzione
e nella formazione morale dei giovani dell’epoca. A me è piaciuto credere che
si trattasse della seconda accezione e, giocando di fantasia, ho immaginato la
lettura nel nostro Parlamento di una proposta di legge a tutela di questo valore,
fra la curiosità e lo sbigottimento dei presenti, abituati a contese di
carattere economico, politico o ideologico, ma sempre con grandi interessi
materiali in gioco.
Una legge contro i distruttori di bellezza è sicuramente un sogno
irrealizzabile, non tanto perché non si sia d’accordo su cosa possa appartenere
alla dimensione dell’ammirevole, quanto perché non si comprende la necessità di
proteggere questo valore astratto, e se l’intelligenza è stata definita come
capacità di porsi un problema, allo stato attuale della doxa, ossia dell’opinione
media, si può dire che non c’è intelligenza sociale di questa realtà.
È difficile sapere se la perdita della sensibilità sociale al bello sia
dovuta più a un difetto di formazione o più a uno stile di vita che ha
cancellato questo valore a favore della concretezza materialistica che pone al
primo posto la ricerca del guadagno, del profitto e dell’affermazione
personale, relegando il bello ad attributo del lusso, esibito per mostrare il
raggiungimento di uno status sociale e suscitare invidia.
Proprio questo sentimento, quando attinge alla meschinità dell’impotenza
che si fa diritto, dell’incapacità che odia l’abilità e della pretesa che
prescinde dal valore, può essere un grande distruttore di bellezza e di vita. Si
vuole che questo genere di invidia abbia origine psicologica in un’immaturità
che, non risolta in termini morali da una crescita in senso altruistico, possa
generare un culto di sé senza capacità di distinzione del soggetto dall’oggetto,
e dunque gravato da una inconsapevole stima del proprio valore determinata dal
possesso di oggetti materiali e immateriali, ai quali si attribuisce implicitamente
il potere di conferire senso[1]. Un ruolo di concausa nella perdita
della sensibilità comune per il bello quale categoria dello spirito lo ha,
probabilmente, l’indebolimento della virtù del riconoscimento del valore altrui.
Se manca il riconoscimento, il valore si perde. Recentemente, nel progettare un
convegno sulle cause della decadenza dell’università italiana, si è tenuto un
dibattito dal quale è emerso che, rispetto al passato, la qualità del giudizio
da parte dei docenti è notevolmente scaduta, e questo ha determinato spesso il
mancato riconoscimento del reale valore di colleghi e studenti, con danno per l’istituzione.
Un altro grande distruttore di bellezza è l’odio. L’avversione totale verso
persone e realtà sociali o culturali, sia motivata da reazione al male ricevuto
sia preconcetta, porta ad escludere dal senso e dall’esistenza dimensioni che,
quanto più sono estese, tanto più è probabile che contengano espressioni di
vita e opere degne di ammirazione.
La guerra, da sempre assassina di vite umane e devastatrice di opere, massacrando
persone e deturpando o cancellando il volto delle città, è la più grande
distruttrice di bellezza. La paura, lo smarrimento, il dolore, la disperazione
e la rabbia dei superstiti sono il segno di una devastazione interiore che lascia
poco spazio alle serene rappresentazioni di armonia e agli slanci verso ideali
edenici, che solo la guarigione delle ferite dell’anima potrà far ritornare nei
più forti, aiutandoli in una rinascita tanto necessaria quanto difficile. La II
Guerra mondiale è, nella memoria storica recente, il più grande incubo per tutti
i cultori della dimensione dello spirito che genera il piacere della
contemplazione e il desiderio di permanere nello stato mentale di una realtà
che, attraendo, avvince e gratifica.
Altana sul bello d’arte e di natura, fonte d’ispirazione per tanti artisti
e luogo dello spirito dal medioevo ai nostri giorni, Ponte Vecchio a Firenze, tra
i più antichi ponti d’Europa e, tra questi, il più noto al mondo, era stato
minato dai soldati tedeschi e la notte fra il 3 e il 4 di agosto del 1944 doveva
saltare in aria e distruggersi, come era toccato in sorte agli altri ponti di
importanza strategica nella logica militare. Notizie, supposizioni e ipotesi
tramate in storie, a volte quasi leggendarie, narravano che il ponte fosse
stato salvato grazie a un’opera segreta di diplomazia internazionale posta in
essere dai capi di stato dell’Alleanza, con un ruolo decisivo del console
tedesco a Firenze Gerhard Wolf, grande amante della bellezza e benemerito per
aver ottenuto il rilascio di numerosi perseguitati politici italiani e di tanti
ebrei durante l’occupazione nazista. A questa versione avevano dato credito alcuni
storici autorevoli e lo stesso Eugenio Giani che, come assessore fiorentino
alle relazioni internazionali, presiedette nel 2007 la cerimonia di scopertura
della lapide posta su Ponte Vecchio in ricordo dell’illustre tedesco, poi
divenuto concittadino onorario per volontà di Giorgio La Pira.
Wolf, originario di Dresda in seguito gemellata con Firenze, aveva
sicuramente speso la sua opera diplomatica al fine di persuadere il Führer a trasmettere
un ordine di sospensione della distruzione della plurisecolare opera di
architettura, con tutte le botteghe degli orafi, i loro alloggiamenti e le altre
case, ma non si ha notizia che quell’ordine sia mai partito e, con ogni
probabilità, il ponte sarebbe saltato egualmente, secondo una ricostruzione
storica più recente.
Un documento rivelatore, ossia una lettera inedita inviata da Lucia Barocchi
a Dora Liscia, è stato determinante per l’indagine storica che ha incluso la
raccolta di numerose testimonianze dell’epoca, a suffragio dell’autenticità di un
racconto che si poteva udire nelle botteghe orafe e che era sempre circolato tra
i Fiorentini: il Ponte Vecchio era stato salvato da un cultore della bellezza,
che bello non era nell’aspetto, ma era bellissimo nello spirito: Burgassi,
detto da tutti Burgasso.
A quest’uomo, reso deforme dagli esiti di una grave forma di poliomielite,
con infermità motorie, deformità scheletriche e un’alterazione posturale
aggravata dall’età avanzata, gli orafi fiorentini per la sua specchiata onestà
e perizia avevano affidato da anni la custodia delle loro botteghe, con il
compito quotidiano di aprirle e chiuderle, collocando nella posizione di mostra
le antiche e pesanti vetrine mobili oggi non più in uso. Burgassi si intendeva come
pochi di lavori artistici in oro, che aveva imparato ad ammirare fin dall’infanzia,
in quanto proveniva da una delle più antiche e prestigiose famiglie di orafi
fiorentini, e ne insegnava il pregio distinto dal valore venale. La preziosa
testimone Lucia Barocchi, novantaquattrenne alla pubblicazione del volume in
cui sono raccolti i documenti e le interviste[2], considerava l’onesto custode un
vero eroe e ha raccontato che lei faceva parte degli sfollati dal ponte che
erano stati ospitati a Boboli. Dunque, se Wolf aveva
ottenuto di poter salvare la vita a quelle persone allontanandole per tempo,
non era riuscito a scongiurare che il ponte fosse minato. Burgassi, pur camminando
a fatica, per il suo compito era sempre intorno alle botteghe di Ponte Vecchio o
si aggirava nei paraggi, ed era noto agli occupanti tedeschi; ma i nazisti,
considerandolo uno storpio demente, non si preoccuparono di allontanarlo durante
le operazioni di collocazione ed innesco delle mine. Lui aveva visto tutto e conosceva
il luogo esatto in cui erano stati collocati i fili.
Burgassi aveva un aiutante giovane ma altrettanto fidato: Luciano, marito della
sua collaboratrice domestica Enrichetta, il quale, da testimone di quella notte,
ha raccontato che il “Burgasso” gli disse: “Luciano,
e noi non s’ha da fare nulla per la nostra povera Firenze?”. E lo condusse con
sé oltre il ponte in via de’ Ramaglianti, dietro il Borgo
San Jacopo, dove erano gli allacci dei fili delle mine: dinanzi a lui,
rischiando la vita, li divelse, così disinnescando tutte le cariche esplosive[3].
Se la distruzione di opere umane di valore simbolico e artistico durante gli
orrori di una guerra può essere oscurata dallo strazio dei lutti e confondersi
nella congerie barbara di un’unica follia collettiva, in tempo di pace la sua natura
di atto assurdo e inconcepibile si staglia su uno sfondo di innocenza attonita,
che dovrebbe generare un’opposizione forte e unanime, prima ancora che una condanna
inappellabile. Un tale disgraziato evento ha avuto luogo nel terzo millennio,
senza il lieto fine di Ponte Vecchio.
Il 27 febbraio del 2001 due colossali statue di Budda, realizzate l’una nel
III secolo d.C. e l’altra nel V secolo d.C. dalle tribù indoeuropee dei Kushan e degli Eftaliti nella valle di Bamiyan in
Afghanistan, furono condannate alla distruzione da 400 religiosi talebani. Le
due opere improvvisamente, dopo 1800 e 1500 anni, rispettivamente, erano
diventate una minaccia intollerabile per l’Islam. Un antico pellegrino cinese, nel
630 d.C., ci ha lasciato una testimonianza in cui raccontava che a quel tempo
le statue erano ancora decorate in oro e adornate di splendidi gioielli. Il 12
marzo 2001 la distruzione fu compiuta sotto gli occhi mediatici del mondo, che
assisté passivamente al barbaro scempio.
Dal comportamento distruttivo come follia in senso figurato, alla malattia
mentale in senso proprio: la triste storia di Laszlo Toth,
un giovane ungherese emigrato in Australia dove lavorava da operaio perché non
aveva ottenuto il riconoscimento di un titolo di studio in geologia ottenuto in
patria.
Pare che Toth presentasse già “formazioni
deliranti stabili” quando trentatreenne si trasferì in Italia. Il suo disturbo
psicotico a quel tempo era diagnosticato tra le forme di paranoia dette “follia
ragionante” nelle epoche precedenti. Giunto a Roma, in Vaticano, provò
ripetutamente e insistentemente a farsi ricevere dal Papa, sostenendo di essere
il Cristo reincarnato. Fu sempre respinto e ingiunto a lasciare la Città del
Vaticano. L’anno dopo, il 21 maggio del 1972, irruppe nella Basilica di San
Pietro, passò attraverso la folla che ammirava la Pietà di Michelangelo, scavalcò
la balaustra e si avventò contro la statua, brandendo un pesante tipo di martello
in uso fra i geologi, e colpì il capo della Madonna e poi, ripetutamente, il
suo volto e le braccia. Fu afferrato e bloccato da Marco Ottaggio,
un vigile che ebbe l’aiuto dei sorveglianti vaticani nel sottrarlo alla folla
dei turisti che voleva linciarlo. Nel compiere l’atto vandalico, l’uomo urlò in
italiano: “Cristo è risorto! Io sono il Cristo”.
Per le sue condizioni mentali, Laszlo Toth non fu
incriminato ma, dopo una valutazione clinica, fu ricoverato in ospedale
psichiatrico in regime manicomiale, e vi rimase per due anni. I Gabinetti di
Ricerche per il Restauro dei Musei Vaticani realizzarono il non semplice lavoro
di ripristino delle condizioni precedenti per le superfici danneggiate.
Questi tre casi di distruzione evitata, distruzione perpetrata e
danneggiamento vandalico, sono esempi di fatti che generano nella massima parte
delle persone reazioni simili, improntate alla cultura comune del rispetto per le
opere d’arte e per tutti i prodotti dell’ingegno e del lavoro umano. Su questi
argomenti sembra esistere una sensibilità diffusa che, a volte, mi ha fatto ben
sperare circa la possibilità che questa generazione recuperi una dimensione di alti
valori condivisi che trascendano gli interessi materiali e particolari, ossia
quella conquista di civiltà che sembra perdersi ciclicamente nel ricorrere
storico di periodi di imbarbarimento come quello attuale. Senza elevare lo
sguardo più in alto di bisogni immediati, particolarismi e convenienze,
difficilmente si può entrare in sintonia con chi parla di bellezza quale
dimensione astratta dell’esistenza.
In proposito, faccio mie le parole del nostro presidente: “Nei momenti di
maggiore pessimismo temo che, in una realtà tutta connessa secondo moduli e
regole vincenti per lanciare mode e trend basati sul nulla delle
identità di customer, qualunque proposta del calibro di quella che
richiede di porsi il problema esistenziale della bellezza, ripensandone in
proprio il senso e ricreandone dentro di sé le radici, sia destinata ad essere
ignorata”[4].
Mi sembra che l’attuale cultura di massa, ammesso che esista in quanto
tale, sia gravata da troppi fardelli di sottocultura, riverniciati di attualità
e mescolati in perfetta “confusiocrazia”[5] tra le tante “offerte di prodotti del
sapere” e modelli involontari di atteggiamenti mentali e comportamentali da
tenere, e pertanto possa risultare refrattaria a un’impegnativa proposta di
lavoro interiore e collettivo, che richiede di riconcepire la vita. La gente è
presa da questi modi di comunicare, che sono diventati modi di essere e di pensare,
distribuiti gratuitamente via web, televisione o radio, e rigorosamente
contrassegnati dall’attraente marchio dell’opinione spontanea –
obbligatoriamente istintiva e superficiale – che rifugge tanto l’acuta
riflessione logica quanto l’interpretazione meditata alla luce di conoscenze
profonde e vissute. Ma non sempre e non tutti sono così.
Concludendo, in Italia, come in tanti altri paesi civili, non mancano leggi
a protezione del patrimonio artistico-culturale, ma dovrebbe essere tutelata la
dimensione immateriale della bellezza e per questo sarebbe necessaria una legge
nel cuore di ogni persona, incisa in quella parte dell’animo che sa che i
distruttori del bello sono distruttori di vita.
L’autrice della
nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla
lettura degli scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica
Lanfredini
BM&L-31 ottobre 2020
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Questa osservazione e le altre interpretazioni in
chiave psicologica presenti nel testo riflettono la concezione e le tesi espresse
al seminario sull’Arte del Vivere dal presidente della nostra società
scientifica.
[2] Claudio Paolini, Cristina
Acidini, Dora Liscia, Antonio Natali, Elisabetta Nardinocchi,
Marco Ferri, Di pietra e d’oro. Maria Cristina di Montmayor
Editore, Firenze 2016.
[3] Cfr. Claudio Paolini et al.,
op. cit. [Claudio Paolini è il direttore del Centro Ricerche e Documentazione
dell’Istituto per l’Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli in Firenze e
Cristina Acidini è presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno ed ex soprintendente
del patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico di Firenze; entrambi
sono storici dell’arte].
[4] Giuseppe Perrella, La
bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 3.
BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro
non più tenuto, causa coronavirus].
[5] Cfr. Giuseppe Perrella, op. cit., ibidem. La parola “confusiocrazia”, che sta ovviamente a indicare il dominio
della confusione, è stata coniata dall’autore.